MALICE?

In 49 States it’s just basketball, but this is Indiana

Negli altri 49 stati è solo basket, ma questa è l’Indiana : in una frase tutto, tutta la religiosità e la compenetrazione che questo gioco ha avuto nella rurale identità dello stato disegnato con la squadra ed il righello nel cuore del midwest americano. Uno dei tre vertici del triangolo della NBA anni 80/90, quello che rimbalzava tra Chicago, Detroit ed appunto Indianapolis. Ma ancora prima: la leggenda di Hoosier e della Milan High School (a.k.a. Hickory HS), il mito di Bob Knight e della University of Indiana, e poi ancora Isiah Thomas, Steve Alford, Larry Bird (Indiana State U).

Quando dovete pensare al basket ed alla passione del gioco pensate ad un granaio di legno con la vernice scrostata, ad un palo con attaccato un tabellone ed un ferro un pò piegato piantati nel mezzo di un piazzale circondato da campi, ad uno di quei camioncini precursori dei moderni pick-up parcheggiato li. Poi immaginatevi un ragazzo con la tuta che tira a canestro, cento, mille volte al giorno. Tutta l’Indiana è cosi, e lo sono in buona parte il Michigan e l’Illinois, tutti ci passano e naturale è che poi questa inveterata passione si trasferisca nelle arene, siano esse di liceo, college o fin su alla NBA.

In questa storia il protagonista non è però ne Larry Joe, il figlio prediletto, ne Isiah, quello più amato ed odiato per aver prima trascinato gli hoosiers di Knight sul tetto della NCAA ma poi per aver fatto grande Detroit, la rivale.

DETROIT, MO-Town

Già, Detroit, la Torino d’America. Fabbriche e automobili. Da queste parti lo showtime sono le difese e le botte. Pragmaticità, regole, equilibrio, durezza. Prima Chuck Daly, a modo suo, poi Larry Brown. Due dinastie simili, talento medio ma compattezza e carattere mai visti. Ambedue le dinastie pagano il pegno che c’è da pagare per vincere nella NBA, lo fanno in modo diverso. I bad boys di Daly prima pagano, leggi sconfitte dolorose e sanguinarie contro i Celtics ed i Lakers, per poi conoscere l’apoteosi e crollare subito dopo sotto Jordan ed i Bulls.

I Pistons di Brown arrivano subito al bersaglio grosso, fanno lo scalpo ai Lakers del threepeat, entrano dalla storia dalla parte giusta non una, ma due volte, e sempre a discapito loro . . . degli INDIANA PACERS

HOLLYWOOD, COSA E’ MANCATO ?

Un minimo comune denominatore in oltre 20 anni ad alto livello: Reggie Miller.

20 anni di grande pallacanestro con 3 picchi: a metà fine anni 90, unici a portare Jordan ed i Bulls ad una gara 7 ed a spingerli davvero sull’orlo dell’eliminazione, evitata solo per alcuni episodi. A cavallo del nuovo secolo, finalmente sfatano la nemesi finale di conference, mandano a casa gli odiati Knicks e si presentano in finale contro i neonati Lakers della dinastia Shaq-Kobe. Ci arrivano con Rik Smits messo male (da qui la famosa “un’anatra zoppa” di Federico Buffa, per cultori) ma il 4-2 finale della serie è figlio anche di una gara 5 finita in Over-Time e di nuovo figlia di eposodi, tutti contrari ai gialloblu.

Los Angeles Lakers 120Indiana Pacers 118 (OT)
Scoring by quarter: 23–33, 28–21, 29–23, 24–27, Overtime: 16–14
Pts: Shaquille O’Neal 36
Rebs: Shaquille O’Neal 21
Asts: Kobe Bryant 5
Pts: Reggie Miller 35
Rebs: Dale Davis 8
Asts: Mark Jackson 8
Los Angeles leads the series, 3–1

Poi c’è il terzo picco, la fine di tutto, il canto del cigno che la storia vuole sia la serata del 19 novembre 2004, quella della Infamous Malice at the Palace, in realtà la storia aveva giocato il proprio tiro mancino qualche mese prima, il 24 maggio 2004 alla Conseco Fieldhouse di Indianapolis. Finire e sigillare la storia (fin qui maledetta) degli amati Pacers con le coca-cole volanti di Auburn Hills è ingiusto, per quanto doloroso sia ricordare che appunto qualche mese prima le due contendenti fossero di fronte una all’altra per giocarsi l’accesso alle finali del 2004, quelle contro i Lakers dei big 4 (Payton, Bryant, Malone, O’Neal), una squadra senza ne capo ne coda, alla frutta sotto molti aspetti, che come dimostrerà la storia (sconfitti 4 a 0) erano solo un ostacolo insignificante tra la vincitrice della Eastern Conference ed il Larry O’Brien Trophy.

I Pacers quell’anno avevano dominato la NBA con un gioco solido fondato su principi lineari e semplici, avevano vinto 61 partite (miglior record nella storia della franchigia) e schiacciato nei primi due turni dei play off i Boston Celtics ed i Miami Heat. La squadra aveva cambiato equilibri e leadership, mutando pelle, ritmi e gioco rispetto alle precedenti fortunate edizioni. La squadra allenata da Bird che costrinse Jordan e Pippen all’unica gara 7 della loro dinastia ai bulls si fondava su un quintetto formato da Mark Jacson play, Miller guardia, Mullin ala e sotto Dale Davies e Rik Smits, dalla panchina Antonio Davies, Derrick McKey ed un imberbe Jalen Rose che sarà invece la star, al posto di Mullin, nell’edizione del 2000 delle finali contro i Lakers, sempre con Larry Legend il panca.

Questi Pacers erano diversi, avevano scambiato Dale Davies per Jermaine O’Neal e Rick Smits non c’era più, come non c’era più Jalen Rose, una scelta coraggiosa, ma che aveva portato in citta Ron Artest. La profondità era garantita da Al Harrington, Austin Croshere e Jamaal Tinsley. L’unico che c’era sempre, c’era comunque e dovunque, era lui, il grande cerbiatto, Reggie Hollywood Miller.

MORBIDO

Quel 24 maggio 2004 Indiana era in vantaggio 1 a 0 nella finale di conference ed a 14″ dalla fine aveva la palla andare a Detroit sul 2 a 0 per gara 3. Rasheed Wallace attacca dal post basso e vuole schiacciare ma Jermaine O’Neal, suo vecchio compagno di squadra ed allievo ai Jail Blazers, va su deciso e contesta la schiacciata negando il canestro. Smanacciate a rimbalzo e palla che schizza lontano recuperata da Billups che deve forzare il tiro e viene cosi intercettato dalla difesa, palla lunga a Miller in campo aperto , lay up facile, Reggie per l’unica volta nella sua carriera va morbido, dal nulla si materializza Thayshaun Prince che compie, 12 anni prima, lo stesso gesto di Lebron a Oakland si Iguodala (eppure non se ne ricorda nessuno, incredibile). I pistons vincono cosi gara 2 impattano la serie e nella storia ci finisce dalla parte sbagliata Ron Artest in gara 6, quando al palace con la partita in bilico a favore dei Pacers rompe l’equilibrio con un fallo intenzionale (gomito nella carotide a Rip Hamilton), la serie finisce ai Pistons che poi sweepano i Lakers… #crossroads

“In the 2004 playoffs, it was us (Indiana) versus Detroit in the Eastern Conference Finals. We were the two best teams in the league both offensively and defensively, I knew that whoever won that series was going to win the championship.”

Reggie Miller – Untold, The Malice in The Palace

Tutto ciò che ne segue è disastro dopo disastro l’implosione di una storia di sport unica, affascinante ed irripetibile, che purtroppo ha tra i protagonisti un campione tra i più sfortunati e puniti dagli dei del basket che non gli hanno permesso al pari di John Stockton e Karl Malone*, il raggiungimento del meritato premio. Per tutta la carriera un Hoosier dentro ed un Pacer, l’emblema dell’Indiana, di un gioco fatto di coraggio e responsabilità prese. Quella storia, la storia sportiva di Reggie Miller, si intreccia incredibilmente con quella di altri due atleti a loro modo predestinati: Jermaine O’Neal ed appunto Ron Artest.

La chance di vincere l’agognato titolo passava soprattutto per la solidità ed il temperamento che J’O e il futuro World Peace avevano saputo portare nel gruppo, dopo la sfortunata serie del 2004 il piccolo O’neal, competitivo come pochi, aveva preteso l’arruolamento di Stephen Jackson ed al momento del fattaccio la formula aveva pagato, perché quei Pacers sembravano destinati a dominare di nuovo la regular season e prima che la coca cola decollasse al Palace erano in vantaggio, anche in doppia cifra per lunghi minuti, contro i campioni NBA, sovrastandoli in ogni fase del gioco.

Una miscela esplosiva che nel momento sbagliato e per una serie di episodi fortuiti tracima fino alla detonazione, finisce ingloriosamente e di Reggie si ricorda il completo gessato ed il dito fasciato mentre cerca di calmare i compagni ed evitare l’irreparabile. Pochi mesi dopo quella tragica serata va in scena il suo congedo dal pubblico della Conseco, tra le lacrime per la commozione di un ciclo irripetibile ma terminato senza un titolo.

Andrà peggio e Jermaine O’Neal, originario del sud più razzista, deciso ad interrompere la storia della propria dinastia scegliendo a 17 anni la grana ed il salto diretto tra i pro. Gli anni difficili di Portland, dove gioca con grandi campioni ed assaggia i play off, era in campo anche lui nella gara 7 del 2000 allo Staples. Poi Indiana, per 3 anni domina la lega, un giocatore totale sui due lati del campo e con una etica del lavoro ed una competitività incredibili. Dell’errore di Miller in gara due delle finali di conference del 2004 lui è forse la vittima più grande, rende con gli interessi al compagno nella rissa del Palace, in cui viene investito di responsabilità maggiori di quelle reali, tritato dalla stampa, messo ai margini per sempre dalle alte sfere della Lega. La sua carriera evapora in quella serata di Novembre a Detroit, l’assurdo nell’assurdo.

Netflix File – not complete

Merito ai creatori di UNTOLD per aver rimesso in ordine la storia ed i fatti, peccato che, per i più che lo vedranno, tutto si fermi all’instabilità mentale di Artest, alle sbruffonate di Jackson ed a poche altre sensazionali vicende che soddisfano le prurigini. Che sia l’assist invece per documentarvi sulla storia sportiva e manageriale degli Indiana Pacers di quei 15 anni, dal 1990 al 2005, una franchigia costruita con superlativa visione da Donnie Walsh, le sfide coi Knicks, le mani al collo di Reggie davanti a Spike Lee e gli 11 punti in un minuto e mezzo, l’overtime di gara 5 del 2000, le sfide con Jordan e Starks, quella serie del 2004 con Detroit. Basket giocato, ad altissime intensità e tecnica. La serata della Malice non può e non deve scrivere i titoli di coda sulla storia di questi atleti, ma solo un apocrifo di per se insignificante.